mercoledì 14 novembre 2018

L'occhio del cervo




"Omar scrutò il pelo del cervo, le corna ampie e il possente torace, e infine quell'occhio. Si notavano le ciglia appena accennate che disegnavano un arco perfetto. E infine quella tristezza, come se l'animale fosse consapevole che il predatore umano stesse per prendersi la sua vita e che l'avesse accettato come un sacrificio necessario, per la difesa dei suoi simili, per la salvezza dei suoi cuccioli..."


Omar Vidal ha meno di quarant'anni. Svogliato e disordinato, gestisce con scarso profitto un autosalone insieme al fratello. Vive in una piccola e noiosa città del nord, con la moglie Greta e la giovane figlia Rebecca. Un pomeriggio d'estate la sua vita sí trasforma in un incubo: suo fratello muore, precipitando in un burrone durante un'uscita in bicicletta in sua compagnia. 
Da quel momento è sospettato come colpevole e controllato a vista dall'ispettore De Innocenti, un vecchio poliziotto animato da un fervore religioso fuori dal comune. Omar capisce di essere perseguitato da un assassino, che colpisce con freddezza e dissemina prove per incastrarlo. Costretto dall'incedere degli eventi e dalla consapevolezza che il killer conosca ogni sua abitudine e debolezza, non si rivolge alla polizia per paura di essere incastrato e ingaggia una competizione con il maniaco. 
Deve proteggere i suoi cari ed essere abile e veloce nel comprendere le ragioni che hanno innescato la violenza. Deve mettere alla prova la sua intelligenza, il suo coraggio e la sua memoria. La soluzione del problema è conservata in un unico, breve istante della sua esistenza passata, e cristallizzata nella storia recente della sua piccola città.


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giovedì 27 settembre 2018

IL DIARIO - Escursione con licenza nel genere horror (ovvero un vecchio racconto rivisitato)

 

Il diario














Oggi ho camminato tutto il giorno e i miei piedi sono ormai in condizioni penose. Sento la suola liquida. Non so se mi spiego, un misto di sudore e tessuto delle calze macerato. Ci deve essere insieme anche un po' di pelle, qualcosa di succulento per le formiche.
Quello che è successo non ha senso. Dove sono finiti i miei compagni di viaggio? Si tratta di uno scherzo di cattivo gusto? Sto pagando forse un peccato che non sapevo di avere commesso?

Mi sono perso, questo è certo. Come sia possibile perdersi nelle Alpi, nel cuore di un continente popolatissimo, non è dato a sapere. È successo, questo è quanto.
Nello zaino ho ancora un po’ di cibo: un paio di scatolette di tonno, del pane incartato alla meno peggio e un vasetto di crema al cioccolato. Di acqua, per fortuna, se ne trova un po’ ovunque da queste parti.
Ho camminato talmente tanto che ho visto i sentieri perdersi e ritrovarsi sotto i tacchi dei miei scarponi. Ora mi trovo in un sottobosco sconosciuto, con l'abitudine delle tinte di marrone tenue negli occhi. Per la verità è da tutto il giorno che vago attraverso paesaggi inediti, brutti quadri pennellati con un eccesso di ombre e scarsa fantasia. Non ho punti di riferimento, il sole e le cime si nascondono alla vista. Faccio fatica a seguire una direzione precisa senza pentirmi ogni venti passi.
Di scendere a valle non se ne parla. Sento scorrere un torrente impetuoso là in fondo. Meglio tenersi a debita distanza. Questa gola, stretta, fredda e inospitale, si lascia attraversare senza darmi la soddisfazione di mutare il paesaggio ma prima o poi, ne sono convinto, dovrebbe condurre a un punto panoramico, un posto da dove la situazione potrebbe diventare più chiara, e la mia posizione più comprensibile.  
Sono determinato ad annotare tutto su questo diario.
Io non ci voglio nemmeno pensare, ma se le cose dovessero prendere una piega drammatica, almeno troveranno qualcosa da raccontare ai miei cari quando il mio cadavere non avrà più nulla da dire.
Il telefono non ha segnale, nemmeno una tacca. Forse dovrei provare a salire su quello spunzone ma temo di pagare un tributo troppo pesante alla fatica, e se poi una volta arrivato la ricezione dovesse continuare a mancare…Insomma, meglio non rischiare, meglio mettersi al sicuro dalla tentazione di compiere un gesto insano, come quello di gettarmi direttamente da lassù.
Ho camminato per un’altra ora.
Quando ho posato il diario l’orologio segnava le 16 e 30, adesso sono le 17 e 27 e il panorama non è cambiato: rocce a strapiombo sui due lati, acqua limacciosa, alberi inerpicati in posti impossibili e qualche raggio di sole che di tanto in tanto riesce ad arrivare fino a qui.
Forse dovrei accendere un fuoco segnaletico, ma chi mi cercherebbe? Una persona viene dichiarata scomparsa dopo trentasei ore e io ho chiamato casa solo questa mattina. Maria era di ottimo umore e si augurava che tornassi presto. Mi ha passato Alessandra. Era felicissima di sentirmi, quella monella! Mi ha raccontato in mezzo minuto quello che aveva combinato in tutto il fine settimana.
Eravamo tutti insieme a quell'ora. Io e gli amici abbiamo mangiato colazione e poi ci siamo appisolati. Al mio risveglio, che potevano essere passati venti minuti al massimo, gli altri erano spariti.
Ho cercato a lungo, chiamandoli attraverso i ruderi di quella caserma abbandonata dove ci eravamo fermati a dormire. Un simile mucchio di pietre, travi marce e cavedi maleodoranti, non l’avevo mai visitato in vita mia. Tuttavia quel posto aveva il suo fascino. Mi chiedo col senno di poi perché l’ho abbandonato. C’erano dei ripari, dopotutto, costituiva un punto di riferimento per un eventuale ricerca, e soprattutto c’era il maledetto segnale del cellulare.
Ho mangiato una delle due scatolette di tonno con metà del pane che ho a disposizione.
Sono le 20 e 30 e comincia a fare freddo. Il maglione in pile nello zaino sarà per questa notte prossima ventura il mio migliore amico. Ho preferito non andare troppo oltre rispetto al punto dove mi sono fermato per compilare il penultimo aggiornamento del diario, e sto seriamente meditando di tornare sui miei passi.
La valle che sto percorrendo a un certo punto vira. Lo si capisce da quel tappo scuro che intravedo in lontananza. La cosa peggiore di questa constatazione è che, a quell’altezza, la strada riprende a salire e il torrente, con ogni probabilità, si getta dentro una cascata. Eviterei di trovarmi con buio in quei paraggi: potrei mettere un piede nel posto sbagliato e precipitare. A quel punto sarei spacciato, e nemmeno qualcuno potrà trovare il racconto delle mie memorie.
Sto cercando di ritornare ai ruderi.
Il tempo a disposizione prima che sia notte sta scadendo.
È meglio per me se individuo un posto appartato per ritirarmi. Sono sempre stato un po' fifone ma in questo caso mi sento al sicuro, almeno per ora. Laggiù c’è una nicchia nella roccia, una piccola grotta. Sembra asciutta e posso occultarla con dei rami. Non che ai lupi o agli orsi o ai cinghiali importi un granché se io mi nascondo; loro sentirebbero il mio odore a un miglio di distanza. Tuttavia, e non so perché, ho il sentore che non vi siano animali in questo angolo del bosco. A dire la verità nemmeno ho sentito cinguettare gli uccelli quest’oggi.
Quando ho detto che non avrei avuto paura, ho detto l’ultima e più grande stupidaggine della mia vita!
Le tenebre hanno inondato questa crepa nella montagna in cui mi trovo da due ore, e l'hanno fatto in un attimo. Sento che sto per cedere a una crisi di nervi. Ho faticato. Ho faticato ad accendere la pila che mi sta facendo luce su questa pagina, e la biro trema fra le dita. Mi rendo conto che è tutto solo frutto della mia fantasia, attivata dalla totale mancanza di riferimenti e da questa notte senza luna, che ricorda una colata di catrame. Ma giuro, giuro che mi è sembrato di sentire dei passi davanti a me, qualcosa che procedeva con tonfi sordi nel terreno che poi si tramutavano in vibrazioni profonde. Ho sentito muoversi le foglie e poi un respiro, che sembrava provenire da un grosso animale, o qualcosa di peggio. Forse sto descrivendo il passaggio di un cinghiale o una folata di vento o l'allegra transumanza di un branco di vermi. Di sicuro non uscirò a verificare, non prima di domani mattina.
Probabilmente stavo dormendo, anche se, onestamente, mi è sembrato di no.
Sono le tre e venti e ho sentito una voce che sussurrava il mio nome.
Dalla paura sono sobbalzato e ho sbattuto la testa contro il soffitto della piccola caverna. «Ludovico…» Ho sentito una prima volta, poi una seconda, solo qualche attimo dopo.
Probabilmente stavo dormendo.
Il fruscio del torrente a fondo valle è diventato parte delle mie abitudini.
Ora mi devo sforzare per percepirlo. Nel silenzio totale, invece, ho sentito qualcosa di pauroso. Un essere vivente è passato qui davanti e si è fermato a guardare nella mia direzione, ad  annusare. Io, per la verità, non so se qualcosa si sia messo in posa proprio di fronte a me, perché è buio pesto e perché non mi sono certo sognato di puntargli la torcia addosso, ma un’immagine di quella cosa si è formata nella mia testa, come un’istantanea, come un subliminale. Era talmente verosimile che mi si sono congelate le ossa e il fiato si è solidificato nei miei polmoni. 
Un rettile. 
A fatica non me la sono fatta addosso. Sono sicuro che qualcosa sia stato qui, e sono altrettanto certo che la medesima cosa se ne sia andata.
Sono soltanto le 4 e 10 e  i miei nervi bruciano come i fili della corrente troppo sottili.
Adesso basta con questo stupido diario.
Potrebbe essere lui ad alimentare le mie paranoie, a estrarre dal profondo le paure che da bambino avevo ricacciato in fondo a un buco.
Il cellulare ha ancora molta energia. È un modello datato: fa poche cose, bene e soprattutto evita di digerirsi la carica della batteria in sola mezza giornata. Credo che farò passare il tempo, qualche minuto almeno, facendo scorrere le numerose fotografie: di mia moglie, di mia figlia, del mio cane. Vorrò anche guardare bene in faccia i miei amici, quei figli di puttana che mi hanno abbandonato in questo bosco senza confini.
Sembra che il sole non voglia sorgere.
Forse un gigante cattivo lo tiene schiacciato dietro il crinale, e adesso sta soffocando e chiedendo aiuto.
Sì..sì, mi sto rendendo conto delle cazzate che scrivo ma non sono pazzo! Il tempo non passa e nemmeno ho il coraggio di guardare l’orologio. Adesso sto contando i miei respiri. In città avrebbero già chiamato l'ambulanza a vedermi ridotto in questo stato. Le ore del mattino sono le più fredde. Lo sapete il perché? Ve lo dico io: perché sono state fuori tutta la notte. Lo so, è una barzelletta idiota che andava di moda negli anni ‘80, ai tempi della scuola media. Mi fa ridere ancora oggi, che cosa ci posso fare?
Nello zaino c’è un mignon di genepì. Com'è stato possibile dimenticarselo! L’ho bevuto interamente facendo finta di non sentire l'esofago bruciare come l'inferno. L'ho fatto tanto ber ubriacare quella paura che mi ha fatto compagnia senza lasciarmi mai. No so se sia ortodosso come prima colazione, e non so nemmeno se si possa parlare di prima colazione, visto che è ancora buio, come tre ore fa, come cento anni fa. 
Mi sembra che verso oriente le tenebre si siano rotte, un primo, timido tentativo del giorno per scacciare a calci in culo questa notte eterna Ho deciso, uscirò dalla mia tana per andare incontro al sole. Questo posto appartato non ha impedito alla paura di farmi compagnia per tutto il tempo. Camminerò, perlomeno, e guadagnerò dei metri preziosi verso casa. Inoltre in questo modo andrò incontro all’alba.
Sono stanco per non avere dormito, ubriaco per avere bevuto alle cinque del mattino, affamato per non avere mangiato nulla.
Mi sono fermato e ho preparato un panino con quello che ho a disposizione. La luce naturale è sufficiente a farlo, senza confondere la crema da sole con quella di cioccolato. A giudicare dal sapore devo avere fatto le cose per bene.
Ho consultato il telefono. Accanto all’icona del segnale il deserto delle tacche. È strano, perché sto tornando indietro, sto tornando incontro al punto da dove ieri avevo telefonato a casa. Non dovrebbe mancare molto al luogo dove mi sono separato dai miei amici. Se continuo con questo passo deciso potrei arrivare sul posto prima di sera, sempre che non finisca con lo scivolare in un precipizio. 
Questa cosa di scrivere mentre cammino mi sta aiutando. Nella notte appena finita, questo taccuino ha tenuto a bada i mostri. Non il freddo, quello ha passato il tempo a morsicarmi le chiappe, ma i mostri sì: si sono liquefatti nel corsivo incerto che ha imbrattato quelle pagine nella penombra. Appena sarò arrivato a casa lo metterò in una teca e lo conserverò per sempre.
La salita che devo affrontare sembra piuttosto severa.
Ieri, ricordo, ho percorso questo stesso tratto in discesa. Devo dire che la pendenza non mi era sembrata tanto importante. Il fiato è corto e i piedi fanno male e si scivola sui ricci e sulle foglie morte e sulla terra umida. La vista del crinale a poco più di dieci minuti mi infonde forza di volontà e coraggio.
Sono arrivato.
La caserma abbandonata e lì, distesa sotto i miei occhi.
Si tratta di un complesso molto importante, del quale ieri non avevo apprezzato l’intera estensione. A guardare bene si nota anche l’avvallamento dove sorge, anzi, dove sorgeva. È artificiale. La caserma, o quel che diavolo era, fu costruita dentro una depressione, una specie di bacino, che evidentemente doveva servire a proteggerla da occhi indiscreti e probabilmente dai tiri diretti dei cannoni.
Sto scendendo, mi rendo conto che il terreno sotto i miei piedi è friabile e privo di vegetazione. C’è molto fango asciutto qui intorno. Anche i rimasugli delle vecchie murature, per la verità, sono semisepolti da uno strato di fango che presenta la superficie screpolata e polverosa. Non so come sia stato, ma ieri nessuno di noi, me compreso, si è accorto che quel complesso che abbiamo visitato doveva essere rimasto per anni, o addirittura per secoli nascosto sotto un lago.
Rieccomi.
Intorno a me le mura antiche, testimoni di un passato che non esiste più.
Il cellulare ha ripreso il segnale. C'è una tacca debole è instabile ma per me è già carnevale.
Giro fra le strutture divelte e prendo appunti.
Ho approfittato della buona carica della batteria per scattare ancora qualche foto.
Laggiù, dopo quel contrafforte e prima della fila di pilastri marci all’interno di una lunga camerata, c’è un edificio ancora praticamente intatto. Si può raggiungere percorrendo una strada lastricata, con un canale di scolo delle acque al centro.  
Dovrei arrivare in un paio di minuti.
Questo posto mette i brividi!
All’interno si notano gli scheletri metallici di alcune file di poltrone. Si vedono molle arrugginite, braccioli in legno masticati dal tempo e rimasugli di tessuto che penzolano come pelle morta.  Probabilmente si trattava di una sala conferenze, o di un cinema o di un teatro per le truppe, costrette all’isolamento in questo posto segreto, a molte ore di cammino dal paesino più vicino. Non riesco a comprendere che senso potesse avere questa installazione e nemmeno capisco che fine abbia fatto la strada che doveva servire a portare fin quassù uomini e vettovaglie. Magari in passato c’erano stati anche dei cannoni, da qualche parte. In ogni caso, comunque fossero organizzati, qui dentro dovevano esserci molti ospiti. Attraverso la porta principale si intravede un palco quasi spogliato del suo assito. Si presenta come un labirinto di corridoi, una specie di spaccato di un plastico illustrativo. Vetri rotti, lamiere, erbacce e piante la fanno da padrone, e non metterei un piede lì dentro nemmeno se fossi costretto.
La tacca sul cellulare, intanto, è definitivamente sparita.
Di continuare la visita non se ne parla nemmeno. Travi in legno pendono dai muri, rivolte verso il basso come impiccati.
Scatto qualche foto ancora. Le studierò con calma sul mio computer a casa, ingrandendole e sgranandole e godendomi i particolari, con un bicchiere di Jameson riserva speciale in una mano e il mouse in quell’altra.
Ecco, ho individuato la strada per andarmene. Ci siamo, si torna a casa!
Ssst, ho sentito delle voci!
Devono essere quei disgraziati dei miei amici che sono tornati per cercarmi.
Un gioco di echi mi confonde. Tento di andare verso nord, in direzione di quello che sembra un pozzo con tanto di carrucola, parapetto in pietra muschiata e ingranaggi per tirare su il secchio.
Sono loro per la miseria, sono loro! Ho visto Luigi passare e Renato, appena dopo di lui.
È finita, ma questa cosa la pagheranno cara!
Sono in fila indiana, vedo anche Marino. Sembrano dei dementi accompagnati nelle loro rispettive camere con le pareti imbottite Sono strani, molto strani. Per la verità sembra che abbiano brindato con la benzina. Pietro è dietro a loro…ma come si stanno muovendo? Ricordano dei sonnambuli.
Oddio, no: qui c’è qualcosa che non quadra! È  meglio che me ne stia nascosto dietro l'angolo. Non è normale quello che sta succedendo…mi sposto per vedere…Cazzo! C’è qualcuno che li sta minacciando con le armi, qualcuno grosso, cattivo e abituato a mettere paura alla gente. È in divisa.
Sono passati dieci minuti e sono disperato!
Non capisco per quale motivo. Non riesco a spiegarmi cosa stia succedendo!
Un paio di uomini, uno per parte, hanno preso un po' di rincorsa e hanno gettato Luigi nel pozzo, poi Renato ha fatto la stessa, schifosissima fine. Sembravano rassegnati alla loro sorte, come gli animali al macello. C’è quel passaggio obbligato che devono seguire e poi quegli occhi tristi e quel sentore di morte, insopportabile come la musica nell'ascensore.  La cosa pazzesca è che non hanno affatto reagito, non si è visto un minimo segno di ribellione. Sono stati drogati, sembra che la loro volontà sia stata azzerata.
Sono sveglio, per la miseria! Sono sveglio ed è tutto vero.
Mi sono spostato indietro di qualche metro. Fanculo il puzzo e la terra nel naso e il fango sotto le unghie e quelle ragnatele che ti si attorcigliano addosso. Non mi hanno visto e questa è l’unica cosa che conta! Forse posso ancora andarmene senza farmi notare. Devo trovare la strada e correre e non farmi sentire e arrivare al paese o almeno sperare che il telefono torni a funzionare.
Caro diario.
Non so se si usa ancora scrivere così, ma di sicuro quello che ho visto accadere è incredibile.
Sono nascosto sotto un vecchio palchetto. Forse aspetterò qui la notte per tentare di fuggire.
I miei amici, uno dopo l’altro, sono stati spinti in quel buco, in quello che mi è sembrato un pozzo. Non un grido, non un lamento. Parevano già morti. C’erano di sicuro una mezza dozzina di militari, credo. Erano persone in divisa, una qualche uniforme mimetica che non ho saputo riconoscere. Nessuna bandiera o distintivo o grado, e agivano sotto un comando superiore.
Ho visto il loro capo. In qualche modo l’ho anche fotografato.
Io non posso classificare meglio quello che mi è apparso, ho difficoltà a inserire quella figura fra le mie conoscenze. Di sicuro non era un uomo! Aveva fattezze antropomorfe, quello sì, ed era alto e pesante, sudato e schifoso ma non apparteneva al genere umano. Se io non dovessi sopravvivere, e se qualcuno verrà in possesso di questo taccuino, sappia che io ho visto u…
«Cosa ha scritto, su quel diario?»
Il tenente non risponde. Strizza gli occhi, sfoglia ancora qualche pagina e poi trae la sua conclusione.
«Mi dispiace, signor capitano. Il sangue ha imbrattato le ultime – mi faccia vedere – tre o quattro pagine. Arriva fino ad un punto dove parla della caserma abbandonata che probabilmente è stata per anni sommersa dall’acqua e che ci sono i resti di un vecchio teatro e bla, bla, bla. Poi non si legge più…»
«Meglio così. Quel documento lo mettiamo a rapporto, come allegazione…Ah, il cellulare distruggetelo subito!»
«Agli ordini signor capitano!»
L’ufficiale prende con sé il diario e lo porta via, tenendolo lontano dal corpo e con la punta di due dita. Non vuole sporcarsi con il sangue e con gli schizzi di cervello che hanno preso il posto delle parole scritte. Il cadavere giace carponi, con la faccia affondata nella polvere e quel buco in testa, fatto senza nessun riguardo.
Si incammina verso l’elicottero, intercetta lo sguardo di un paio di soldati e indica loro di mettere in pratica il solito protocollo, quello in uso per fare sparire i cadaveri.
Gli altri amici erano stati destinati al pozzo, e le cose erano andate per il verso giusto. Quell’idiota, ormai ridotto a un ammasso di carne morta, era stato sottoposto a  un trattamento di riguardo: la cancellazione della memoria. Doveva servire a un altro tipo di esperimento.
Doveva solo tornare a casa sua e fare quello per cui era stato programmato; non ricordare molte cose e ricordarne molte altre nel modo sbagliato. Per qualche motivo, invece, aveva deciso di andare nella direzione opposta, e loro nemmeno se ne erano accorti.
Ora qualche insolente scocciatore sarebbe anche venuto a cercarli.
Sotto la visiera del suo cappello si intuiscono appena i segni della paura e dell’umiliazione per quel fallimento.
Lo sa che non servirà a nulla, ma vuole farlo comunque, in segno di sottomissione.
Passa davanti al suo capo, con la testa china e lo sguardo concentrato sui lacci delle scarpe.
Inutile nascondersi, lui sa leggere nel pensiero.




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venerdì 14 settembre 2018

Il centro commerciale, la domenica...







Sei appena uscito dal centro commerciale. Fa un caldo di Dio e provi quella sensazione di suole appiccicate sull'asfalto. 

La tangenziale, che circonda l'areale come un cappio, fuma tipo un fuoco spento a secchiate o un cerino consumato, e tu spingi il carrello. Cigola e tira a destra, come al solito. I clienti di prima hanno dimenticato lo scontrino pizzicato fra le griglie. Per quanto ti impegni, per quanto esamini l'aggeggio come una formula uno ai box, riesci sempre a prendere quello con la convergenza fatta male o con i cuscinetti della ruota ridotti in ghiaia. 

Niente di che, ti mancavano il dentifricio e la carta igienica, e volevi un paio di pizze surgelate da mettere via per quelle cene da improvvisare in fretta. La cosa, però, ti è scappata di mano e alla fine ti hanno asciugato centosettanta euro dalla carta di credito. 

Sulle prime non la vedi, semmai la percepisci.

E' così vicina che basterebbe un alito per spingertela addosso, puzza come un vulcano ed è silenziosa come un killer nella nebbia. 

E' lei, è la macchina nera. 
La ignori ma non puoi fare a meno di percepire qualche pulsazione che si aggiunge alle altre e un altro po' di sudore che cola sotto la maglietta. E allora allunghi il passo, affondi la mano in tasca alla ricerca delle chiavi e svolti nella corsia laterale del parcheggio. La convergenza del carrello non ti aiuta ma tu spingi e riesci a passare oltre a quella berlina blu, quella buttata con tre ruote su quattro nel parcheggio dei disabili. 
Ma è domenica. 
La tua squadra del cuore ha giocato il venerdì sera e la passeggiata in montagna è rimasta nelle tue intenzioni. C'è più pancia che cuore, ormai, le tue scarpe da trekking sono a seccare nel fondo del ripostiglio e la bicicletta avrà sicuramente le ruote sgonfie.
La tua auto è in fondo, a cuocere sotto un albero che non ha nessuna intenzione di crescere e che si apparenta con un suo simile con il fusto inciso dalle iniziali di due innamorati. Non sei mai stato bravo a valutare ma è distante trenta metri almeno.
Ti chiedi come sia possibile che gli architetti abbiano disegnato aree piantumate a verde, con chiome larghe e ombrose e figurine di famiglie felici, uomini in bombetta e signore con l'ombrello sullo sfondo di un parco giochi e poi, puntualmente, ti ritrovi sopra un distesa di cemento rovente e cocci di mattone che si dividono lo spazio con le erbacce. 
Ma è domenica, il parcheggio è grande come il Nebraska ma niente, non c'è un posto nemmeno a pagarlo e i mariti impazienti consumano la batteria del cellulare sistemati in seconda fila e i cani pisciano sui cerchi in lega e le padrone sfidano l'aria condizionata per decidere il colore del costume, la prova più dura. E anche i bambini sono dentro, ad annegare nel mare di palline colorate sotto lo sguardo attento del solito addetto, quello della domenica prima, e prima ancora e della primavera piovosa con le auto che ti scaricavano le pozzanghere addosso. Giureresti di averlo visto affettare il salame, o guidare il muletto, o correre alla chiamata del diffusore interno con un sentore di sudore che partiva dallo svolazzo azzurro del grembiule.
Giureresti ma non te ne importa nulla: probabilmente non avrà nemmeno una fidanzata.
E l'auto nera si avvicina. 
Senti le gomme che si masticano la strada e la ventola in sottofondo. Si affianca. Il finestrino scuro scende e lascia scappare una mischia di suoni bassi in Dolby Surround. E' lì che non capisci, è lì che quella voce che arriva dall'abitacolo ti fa strizzare gli occhi.
Ma è domenica e il carrello tira a destra e per poco non va a baciare la portiera della macchina nera. L'uomo al volante scosta il gomito e ti guarda inviperito.
Poi gli passa. Forza un sorriso come se si sollevasse le guance con il cric e lascia scappare un alito di caramella. La donna seduta accanto si preoccupa di apparire cordiale ma tu scorgi solo una scollatura con il segno dell'abbronzatura e il principio di un collo.
Ti fermi.
Ti fermi e ti accorgi che la macchina nera non è la sola. La segue un codazzo di utilitarie, suv, e mononolume che traboccano di bambini impazienti. Al fondo della fila, incastrata da una manovra senza apparente soluzione, una signora suona il clacson e manda al diavolo il mondo intero.
L' auto nera si avvicina ancora. 
Ti ha seguito per tutto il parcheggio e insieme a lei la metà delle vetture immatricolate nell'ultimo lustro. A guardare meglio non si capisce dove finisca la fila.
" Va via?"
Il sorriso tenuto con il cric barcolla e la mano lasciata penzolare fuori picchietta la carrozzeria con le dita.
" Scusi?"
" Dicevo: va via?"
È domenica. Probabilmente lo svincolo della tangenziale sarà ingozzato e il casello invalicabile. Probabilmente ti avranno già soffiato il posto sotto casa e ti toccherà fare due giri con i sacchetti. Le porte scorrevoli del centro commerciale sono paralizzate dal passaggio dei clienti. È vero, qualche volta lo stupido dispositivo che le comanda tenta di farle chiudere, ma è domenica, e i due pannelli proprio non riescono a venirsi incontro.
" Sì...sì, sto andando via" e indichi la tua auto come per giustificarti.
" Bene. Allora mi prendo il parcheggio..."
A quel punto il finestrino si richiude. Fine della donna senza volto e del trionfo di suoni bassi esasperati dal subwoofwer. Fine delle speranze di altri mille, anonimi automobilisti, tanto liberi di andarsene dove vogliono, quanto prigionieri di quella tonnellata di lamiera e gomma.
Ma è domenica.
Ti sei abituato alla cacofonia dei clacson. Carichi la spesa, sali in auto, accendi e cominci la retromarcia. La macchina nera ti marca stretto, così tanto che devi fare attenzione a non raschiare il paraurti. Ti senti stupido per avere fatto una manovra di troppo di fronte a tutta quella platea. Ti sembra di avere sentito qualche insulto volarti addosso.
Ma è domenica. 
Sei partito, non hai fatto in tempo a girare l'angolo che già la macchina nera si è infilata al posto tuo.
La coppia col carrello e il bambino a cavalcioni nel cestello, non sembra darsi tanta pena. Come a un funerale, un station wagon grigia la sta seguendo senza fare rumore. 
A giudicare dalla situazione, gli altri dietro dovranno fare ancora tanti giri.


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martedì 11 settembre 2018

E' con la solita, immancabile emozione, che annuncio il mio quinto romanzo. La sesta destinazione

fra soli due giorni...








Inverno, una città del nord, la vita di qualcuno che cambia improvvisamente.
Cinque persone ricevono per sbaglio altrettante mail. Non lo sanno ancora, ma i messaggi contengono la formula chimica di un veleno capace di uccidere, sia nel breve che nel lungo periodo.
Accade tutto così in fretta che i destinatari della trasmissione sbagliata cominciano a essere eliminati dai killer della cospirazione,  che subito si accorge del suo grossolano errore.  Qualcuno riesce a sottrarsi al proprio destino, aiutato dalla fortuna e da una potente organizzazione, che  si serve di moderne tecnologie e informazioni di spionaggio.
Lucio, il suo amico Alex, la bella Francesca e Stella, dividono l’incubo con altri, colpevoli di essere casualmente finiti sulla loro strada. Imparano presto che il mondo sta per cambiare, che il veleno è già stato diffuso e che i suoi effetti si vedranno molto presto. Considerati preziosi testimoni,  tenuti nascosti e spostati di continuo, riescono a sopravvivere, ma presto dovranno fare i conti con la feroce determinazione dei loro nemici.

Con il tempo che passa e che non concede seconde occasioni, su una scacchiera che si estende fra il nord Europa e i tropici, il futuro dell’umanità è nelle mani di pochi, scaltri giocatori.




Come nella migliore tradizione della narrativa apocalittica, che ha ne L’ombra dello scorpione di Stephen King il suo esempio più rappresentativo, il titolo è un romanzo capace di travalicare il genere e colpire al cuore del lettore, andando a scavare nel lato di tenebra dell’animo umano. E l’umanità che Capocristi mette in scena è una scacchiera dove tutti sono sacrificabili, un esercito di marionette condotte alla morte dalle mani di burattinai senza scrupoli. Orchestrato come una sinfonia macabra dove gli eventi precipitano e dove il lieto fine è solo un’illusione, condotto attraverso una narrazione sincopata che miscela thriller, complotti cospirativi, sprazzi horror e disilluso pessimismo, il testo è la tragica ed ineluttabile conclusione delle nostre speranze.






giovedì 12 luglio 2018

Scrivere la musica...


...ma non sul pentagramma. 
E no, altrimenti sarebbe troppo facile!

Eppure, raccontare le canzoni nei libri, è una cosa che fanno in molti. 
Prendiamo Stephen King, per esempio. Sono ricorrenti le situazioni dove un juke boxe sta suonando sullo sfondo di una conversazione, dove un'auto passa attraverso il paese con i finestrini abbassati che fanno scappare un pezzo di rock'n roll, dove un passante a testa china lascia intuire quel brano di Fats Domino sgranocchiato dalle sue cuffie, dove una scopata memorabile è accompagnata dal dj di notte che imbrocca una hit dopo l'altra. Io, per esempio, ci avevo provato nel mio thriller

Senza troppi convenevoli avevano scopato nel parcheggio, quella sera stessa, mentre all’interno una band massacrava un repertorio vintage che comprendeva pezzi di estrazione rock-pop e musica italiana. Lui aveva contato i brani, uno per uno: Dust my broom, versione degli ZZ Top, tre minuti e sette secondi, Proud Mary, Creedence Clearwater Revival, tre minuti e dieci, Let Spend the night togheter, Rolling Stones, tre e trentasette, Black Betty, Ram Jam, …cinque interminabili minuti e trenta. Stuck in the middle whith you, degli Stealers Wheel… Era arrivato fino all’assolo. Aveva avuto una misura della sua prestazione sessuale mentre, sotto di lui, quella ragazza appena conosciuta disegnava ghirigori con l’unghia sul finestrino dell’auto, ormai completamente appannato. 





E i bar malfamati raccontati da John Lansdale? 
Prima che Hap & Leonard si mettano a menar le mani, c'è sempre modo di immaginarsi la chitarra di Robert Johnson che esegue un blues strascicato e triste dagli altoparlanti sgangherati di una vecchia radio.
Insomma, la musica nei libri funziona. Se il repertorio di gesti e comportamenti alla fine si esaurisce e diventa un po' ripetitivo (tamburellò le dita sul piano della scrivania - aggrottò le sopracciglia un po' preoccupato - ridusse gli occhi a due fessure - dipinse una smorfia agli angoli della bocca - sbuffò - si mise a giocherellare con il lobo di un orecchio, e via dicendo), piazzare una, per così dire, "suggestione musicale" nel bel mezzo di una scena, ha una rotondità tutta sua e la capacità di farsi ricordare.


«Dai Giò, dimmi la verità!»
«Solo se dopo ti farai tagliare barba e capelli.»
«Questo non succederà mai!»
Lei prese il telecomando sul comodino e accese la TV, che era sintonizzata su un canale musicale. In quel momento la Steve Miller Band aveva appena cominciato a suonare Rock’n me. 
«Mio padre…Era fatto così…»
«In che senso?» Domandò lui, che quasi si era pentito di avere sollevato la questione.
So keep on rock’n me baby, keep on a rock’n me baby…
«Nel senso che lui, le donne, le voleva dimesse, castigate e obbedienti alla parola del Signore…»

...e in quel momento, mentre scrivevo
E se poi la cosa diventa un pretesto per dare qualche utile informazione:

Edo si mostrò pentito e tentò di cambiare discorso, proprio mentre in televisione partiva il video di Harlem shuffle dei Rolling Stones, con tanto di cartone animato introduttivo. Ancora una volta si rese conto che Keith Richard aveva messo sotto sopra il mondo del rock, semplicemente togliendo una corda alla chitarra  e scordandone un’altra.






Come dico, funziona! 
Gli odori possiamo descriverli ma la musica, quella no. E' incisa, si può scoprire e riscoprire. Secondo me due amanti che flirtano predispongono al buon umore e anzi, se dall'altra parte del parabrezza abbiamo un paesaggio provenzale, e i piedi sul cruscotto e la voglia di vivere che ci viene incontro, una bella canzone non può che rafforzare l'atmosfera. E così, nel mio secondo thriller ,

Percorsero un lungo ponte attraverso il lago, illudendosi per un paio di minuti di essere a bordo di un aliscafo, poi si tuffarono su una strada veloce che assecondava sinuosa i saliscendi del terreno, al centro di un panorama di montagne brulle. Paul Stanley cantava Hold me touch me, un lento strappa mutande che raggiungeva la sua apoteosi con un assolo di chitarra manierato e leccato per bene. Luca sottolineò la perfezione del bending a metà esecuzione, erigendo il dito indice e descrivendo una virgoletta nell’aria.





Ricordo che al cinema, il primo regista ad abbinare una musica sdolcinata a immagini di violenza fu Lucio Fulci, artista nostrano troppo poco apprezzato e ispiratore dell'assai più famoso Quentin Tarantino (avete visto la scena della morte di Shosanna che si accompagna con la musica di Morricone? Se non l'aveste ancora fatto, vi consiglio caldamente di procurarvi "Bastardi senza gloria" e di vederlo al più presto). 

Che dire, secondo me fa la sua porca figura e ho adoperato l'espediente in qualche occasione, tipo nel mio thriller

Tentò di improvvisare una preghiera, attingendo al magro repertorio dei ricordi del catechismo, con quella suora antipatica che non mancava mai di rimproverare la sua esuberanza. Alla seconda frase mormorata fra le labbra chiuse, l’uomo la interruppe, accendendo una vecchia radio a pile con l’antenna spuntata. Era impolverata e doveva giacere su quello scaffale di legno da almeno vent’anni, in compagnia di una lunga fila di bottiglie di alcool. Erano ordinatamente allineate, con tutte quelle fiamme sullo sfondo arancione e la scritta 95° in mostra sulle etichette.
Dopo la breve introduzione di un Dj con la voce baritonale, i Faith no More cominciarono a cantare Epic. Per quanto l’altoparlante di quell’apparecchio potesse gracchiare, la struttura del riff emergeva con tutta la sua potenza e il rap scandiva le sue parole con decisione. 
L’uomo si inginocchiò di fronte a lei e si fermò a odorarne la paura. Mise il tappo del pennarello in bocca e lo strappò letteralmente con i denti. Dalla punta blu arrivò un sentore di solvente. 
«Ti piace Tolstoj, ragazza mia?»
L’aveva letto l’anno prima, attingendo alla ricca biblioteca di casa sua. La Sonata a Kreutzer, si intitolava, e l’aveva scelto perché era il meno voluminoso fra tutti.  «No…non lo so…non ricordo» tentò di interpretare un’emozione nel gelo di quegli occhi. «Mi piace. Sì, mi piace» piagnucolò.
«Bene, allora sulla tua bara scriverò un aforisma di Tolstoj…»

E così via.
Nel mio nuovo, appena uscito e ancora verginello, 

Aveva da poco aggirato l’obelisco.
Il cinema monosala, appena passata la piazza grossa, prometteva di sbocciare al sabato sera prossimo venturo, con un horror adolescenziale girato in soggettiva. Il negozio di dischi non vendeva dischi e il libraio chiacchierava col titolare della concessionaria della telefonia mobile di certi problemi di salute legati all’eccesso di zuccheri nel sangue mentre, dalla radio del negozio di intimo in franchising,  i Led Zeppelin suonavano un blues: said i’ve been crying, yeah. Oh my tears they feel like a rain… Baby, since I’ve been loving you...
Avvertì la lieve salita della strada come fosse la parete nord del Kangchenjunga e quel peso nella tasca: una bomba termonucleare innescata e pronta a vaporizzarlo nell’aria. 
Doveva arrivare in cima, attraversare il borgo medioevale e ridiscendere verso la zona residenziale dopo avere percorso i portici della parte ottocentesca della città. A quel punto avrebbe provato un po’ di invidia per le numerose case con giardino, piscina e berlina di lusso abbandonata davanti al cancello. Per il momento un acciottolato incerto sotto i piedi e in senso contrario pedoni frettolosi. L’assolo di Jimmy Page, intanto, si confondeva in lontananza con l’oroscopo del giorno che usciva da una radio locale lasciata suonare al bar. Il segno del leone, oggi, avrebbe avuto a che fare con una persona meschina. Lui era della vergine: che fortuna, pensò.


Ecco, adesso ho veramente molti dubbi che un negozio di mutande in franchising possa preferire i Led Zeppelin a Young Signorino, ma a me piace così, al mio mondo piace così.






E poi c'è la musica classica: sempreverde, oserei dire eterna. 
Anche se non tutti lo sanno, la musica classica ha il vantaggio di non generare nessun onere in merito ai diritti d'autore, trattandosi quasi sempre di compositori trapassati molti anni prima.

Brindarono con del Louis Roeder del 2006, servito in calici di cristallo, mentre in sottofondo trio di musicisti eseguiva impeccabilmente l’opera 100 di Schubert.
La sindrome di Stendhal, che inevitabilmente colpiva Leonardo all’ascolto di quel capolavoro di purezza ed essenzialità, si impossessò nuovamente di lui.  Una giovane donna bionda, di una bellezza statuaria, attraversò l’ampio salone, proprio mentre il violinista faceva sfoggio del suo talento. Vestiva un abito di velluto nero, che le fasciava i fianchi e si intonava perfettamente con lo Steinway nero che eseguiva l’accompagnamento sotto le mani abili di un pianista in frac... 

Quindi sì, mi sento di dirlo, come musicista fallito e come instancabile collezionista di dischi: la musica nella narrativa non suonerà proprio come su un vinile collegato al migliore amplificatore valvolare del mondo, ma avrà l'indubbio merito di aiutarci a sognare.




mercoledì 11 luglio 2018

Una notte per non morire

Ognuno è artefice del destino: lo può indirizzare a proprio piacimento... Anzi no, il destino è ineluttabile, scolpito nella dura pietra e sarà del tutto inutile tentare di dominarlo...


Secondo me, invece, il destino è solo un artista a corto di fantasia. Si limita a puntare il compasso in un centro che sceglie a caso, lo allarga secondo una misura a suo piacimento e comincia a girare, in un senso o in quell'altro. Per fare aumentare il numero delle variabili, farà ruotare l'attrezzo con una velocità ogni volta diversa. Intersecherà altri cerchi, più o meno grandi e più o meno calcati. Il punto dell'intersezione potrà essere l'incontro di due anime affini, lo scontro con delle anime nere, la condivisione di un pezzo di strada con una persona della quale si ignorava l'esistenza. Potrà essere un proiettile calibro 45 che arriva assieme a una nuvola di vetri rotti. Il destino è onesto, scarabocchia i suoi cerchi e si prende tutto il tempo necessario per chiuderli. Se ti agiti sul foglio, calpestando nel buio le linee curve, rischierai di non capirci nulla, di raschiare il fondo della notte, di morire.
Ecco perché conviene mettersi in alto, lasciare penzolare le gambe dal cornicione del quindicesimo piano e aspettare...








In versione ebook e presto in cartaceo

https://www.amazon.it/Una-notte-non-morire-Adrenalina-ebook/dp/B07DNM6W5K/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1531302220&sr=8-1&keywords=capocristi

lunedì 9 luglio 2018

Cinquanta sfumature di tattica

Ci avete fatto caso?
Sono sicuro di sì.

L'aumento esponenziale del numero degli scrittori ha creato un vero e proprio indotto. Sono aumentati gli editori, gli spazi per l'esposizione nei saloni dedicati (e di conseguenza anche gli introiti di chi organizza gli eventi) e, non ultimo,  il fatturato delle tipografie. 
Purtroppo, a causa di un effetto collaterale piuttosto prevedibile, sono calate le vendite, si è paurosamente ridimensionata la qualità ed è crollato il numero di centimetri quadrati che i librai possono mettere a disposizione del prodotto. Inoltre, il tempo di cui quest'ultimo potrà godere per restare nel classico posto al sole, magari dentro una vetrina del centro e accanto all'ultima creatura di qualche mostro sacro d'oltreoceano, si conta ormai col cronometro dei centometristi. 
Questa offerta in continuo rialzo ha fatto anche in modo che si moltiplicassero tutte le iniziative propedeutiche alla produzione di un libro, tipo le agenzie letterarie più o meno serie, i blog in argomento, le pagine sui social che promettono di dare visibilità e quello sgomitare poco elegante, che i vari autori mettono in pratica per farsi notare nel cuore dell'area di rigore. 
E qui sono arrivato al punto.Voglio usare una metafora calcistica perché, secondo me, mette a fuoco il fenomeno meglio di qualsiasi altra cosa.


L A   T A T T I C A 





Partendo dal presupposto che nessuno nasce imparato, che si deve essere umili sempre e che si deve prestare attenzione a chi ne sa di più (e pure di meno perché ammettiamolo, anche chi dice cazzate a nastro riesce a imbroccare qualche verità ogni tanti minuti di sproloquio), ascolto da anni le disamine più diverse sul come aumentare le vendite, presentarsi in pubblico, proporsi on line, costruirsi un cartonato accattivante da piazzare sulla porta di tutte le librerie, pronunciare solo frasi che passeranno alla storia dopo che qualche scalpellino le avrà scolpite nel marmo. Diventare un monumento.

Le correnti di pensiero sono diverse ma mi sento di riassumerle in tre grandi tronconi:






Il pensiero positivo. 

Ovvero autosuggestionarsi che tutta la storia della letteratura, da Ariosto in poi, è stata unicamente un riempitivo, le majorettes prima della partita, il gruppo spalla un po' fracassone che precede la grande star, cioè tu. Questa forma di pensiero presuppone sorrisi continui a numerosi denti, tinta o rinfoltimento della capigliatura qualora necessario, ingenti spese dall'estetista e un autentico salasso per rivolgersi al fotografo professionista, per mettere a fuoco degli scatti da mostra dell'arte. Presuppone anche la presenza a ogni evento mondano, con un codazzo di veline serventi a seguirti ovunque e una reperibilità H 24  per rispondere alle lettere plaudenti dei tuoi fan, che non dovrai mai deludere. E infine, ma non per ultima cosa, dovrai anche procurarti una costosissima penna d'oro Mont Blanc, per autografare le copie vendute ad ogni singolo evento mondano (sempre con il fedele cartonato piazzato sulla porta della prestigiosa sede e le veline ossequianti a congedare i tuoi fan con un sorriso).











Il pensiero negativo. 

Vale a dire proiettarsi nell'ordine di idee che lo scrittore avrà qualche flebile speranza di successo solo dopo morto, che un mostro gigantesco e ingordo si mangerà ogni singolo centesimo che faticosamente avrà guadagnato, che solo alcuni eletti si meriteranno l'attenzione dei lettori. Occorre levarsi dalla testa che si possa essere fortunati. Qualunque autore di successo non sarà delle tue parti, non parlerà la tua stessa lingua e sarà infinitamente più dotato, ispirato, intuitivo, accompagnato sulla strada dell'immortalità da un suo speciale angelo custode, con le ali rigide come la copertina di un best seller. 

Il pensiero negativo non propone alternative, si limita a scuotere la testa suggerendo tattiche di difesa a oltranza, nella  speranza assai vana di trascinare ai rigori gli imbattibili avversari. Diciamo che se hai Cristiano Ronaldo in campo, quelli del pensiero negativo ti suggeriranno di richiamarlo in panchina per fare entrare Crisantemo. 

Quelli del pensiero negativo, inoltre, diranno che è tutto inutile, che sei brutto, scoordinato, inopportuno, che parli mangiandoti le parole, indisponi i tuoi potenziali lettori con un'alzata di sopracciglia  e che, a ogni presentazione del tuo libro, le tue ascelle avvelenano la sala con il loro odore troppo presente. 





Il pensiero costruttivo. 
Ovvero spaccarsi di fatica curando ogni dettaglio apparentemente insignificante. Dovrai sfogliare tutti i tuoi cartacei per scoprire la singola pagina con l'orecchio, quella T maiuscola stampata male al capitolo 21. Dovrai evitare di adoperare lo scotch da discount per appendere le locandine delle tue presentazioni. Dovrai andare alla ricerca di quel maledetto post scritto da ubriaco quattro anni prima su facebook, dove ti era scappato un qual è apostrofato. Sarà tuo carico convincerti che ogni fallimento sarà imputabile a te, e solo a te e ogni successo sarà merito del dio lavoro o al massimo di qualcun altro. 
Il pensiero costruttivo, calcisticamente parlando, non fa gol.
Se il centravanti avrà avuto l'ardire, l'intuizione felice e la rapidità di pensiero di segnare perché la palla passava di lì, dovrà essere immediatamente richiamato in panchina e sostituito, colpevole di avere interrotto la faticosa applicazione della tattica e del lavoro di tutta la squadra calciando maldestramente il pallone in rete. Il pensiero costruttivo non ammette il talento: lo considera un antipatico incidente di percorso da cancellare immediatamente.




Insomma, ho scherzato ma fateci caso, ascoltate per bene tutti questi contenuti, seguite con attenzione i forum di discussione e sono sicuro che mi darete ragione. 
Nel mare di parole, idee e concetti e ragionamenti e previsioni e contraddizioni cui avrete modo di assistere, mai e poi mai troverete la ricetta magica per sperare di non passare nella galassia  degli scrittori come una meteora degli anni ' 80, la sola e unica risposta a tutti i problemi e cioè:




E S S E R E   B R A V I 

venerdì 6 luglio 2018

Il genio della massa - Charles Bukowski





Il genio della massa, Charles Bukowski






C’è abbastanza perfidia, odio, violenza, assurdità nell’essere umano medio
per rifornire qualsiasi esercito in qualsiasi giorno
E i migliori assassini sono quelli che predicano la vita
E i migliori a odiare sono quelli che predicano l’amore
E i migliori in guerra – in definitiva – sono quelli che predicano la pace
Quelli che predicano Dio hanno bisogno di Dio
Quelli che predicano la pace non hanno pace
Quelli che predicano amore non hanno amore
Attenti ai predicatori
Attenti ai sapienti
Attenti a quelli che leggono sempre libri
Attenti a quelli che detestano la povertà
o ne sono orgogliosi
Attenti a quelli che sono sempre pronti ad elogiare
poiché hanno loro bisogno di elogi in cambio
Attenti a quelli pronti a censurare
hanno paura di quello che non sanno
Attenti a quelli che cercano continuamente
la folla; da soli non sono nessuno
Attenti agli uomini comuni alle donne comuni
attenti al loro amore,
Il loro è un amore comune
che mira alla mediocrità
Ma c’è il genio nel loro odio
c’è abbastanza genio nel loro odio per ucciderti
per uccidere chiunque.
Non volendo la solitudine
non concependo la solitudine
cercheranno di distruggere tutto ciò
che si differenzia da loro stessi.
Non essendo capaci di creare arte
non capiranno l’arte.
Considereranno il loro fallimento, come creatori,
solo come un fallimento del mondo intero.
Non essendo in grado di amare pienamente
considereranno il tuo amore incompleto
e poi odieranno te
e il loro odio sarà perfetto.
Come un diamante splendente
Come un coltello
Come una montagna
Come una tigre
Come cicuta
La loro arte più raffinata