venerdì 13 aprile 2018

Alla ricerca dell'ispirazione









«Sì, evviva, potrei scrivere un libro sugli zombie! Saccheggerei migliaia di pagine di letteratura e cinema, tanto cinema. Pensa che il primo film sugli zombie risale addirittura al millenovecento... Aspetta che vado su Google e...»
«Ma risparmiati i polpastrelli! Saccheggeresti soltanto del materiale che altri hanno già saccheggiato. Non faresti che riproporre la solita minestra riscaldata.»
«Sicura?»
«Perbacco, certo che sono sicura!»
«Quindi gli zombie, no. »
«Che marciscano in pace.»
«E un poliziesco con l'ispettore, come lo vedi?»
«Intendi il solito ispettore che sta sulle palle al distretto intero, fuma senza ritegno, si attacca alla bottiglia come fosse la tetta di sua madre, ha moglie e figli che si rifiutano di vederlo e quando il caso si arena decide di fare giustizia da sé?»
«Un ispettore tipo quello, ma senza la tetta della madre. Potrebbe farmi scadere la cosa nell'incesto.»
«Lascia stare...»
«E perché?»
«Perché è un cliché, che piace per l'amor di Dio, ma è un cliché...»
«Patologo, allora! Un patologo forense che risolve i casi. Io peraltro conosco un patologo. Non dico che mi porterebbe in luna di miele all'obitorio, ma qualche dritta sulla professione sua e qualche particolare raccapricciante me lo darebbe. Magari lo invito a cena...»
«Ma ce ne sono a migliaia!»
«Di patologi che risolvono i casi?»
«E chi se no?» 
«Ma io gli incollo un vizio...»
«Dopo i libri di Bukowski non esiste più vizio che regga.»
«Un difetto di nascita, allora. Lo faccio dislessico!»
«Esiste già...»
«Un patologo dislessico?»
«Non proprio. È un ispettore, ma che differenza fa!»
«Posso dire una parolaccia?»
«No!»
«Merda!»
«L'hai detta!»
«Dopo l'ispettore dislessico ne avevo diritto. E se invece virassi sul serial killer?»
«Uhm, un po' sfruttato ma sempre interessante...»
«Lo faccio speciale...Ah, ecco, senti che idea. E' un serial killer che non sa di esserlo. Voglio dire, dissocia. Sostituisce la sua persona immaginandosi un energumeno che attraversa la provincia desolata con un vecchio furgone...»
«Già fatto...»
«Davvero?»
«Oh yes!»
«Un serial killer senza casa. Uno che si apparta nelle dimore altrui e...»
«Arrivi in ritardo, mio caro!»
«Che gira disarmato e che quando deve uccidere la sua vittima, improvvisa.»
«Già fatto.»
«E chi sarebbe sto genio?»
«Te lo direi ma non posso. E’ lo stesso autore di questo racconto e finirebbe con l’essere squalificato»
«Leggerò qualcosa di suo.»
«Dovresti, è bravo...»
«Un serial killer che uccide le vergini!»
«Oddio!»
«Gira mascherato!»
«Bleah!»
«È un religioso invasato.»
«Ma dai! Ti arrendi?»
«No, maledizione! Scriverò una storia con femmine fatali, malavitosi, vampiri e demoni che si rincorrono allegramente in mezzo ai grattacieli di una metropoli!»
«Dimenticavi i lupi mannari...»
«Non funzionerebbe, vero?»
«Magari sì, se fossimo nel 1948, un po' prima dell'avvento della televisione.»
«Macchine infernali, epidemie letali, colpi di stato interplanetari...Un organismo xenomorfo parassitoide extraterreste che da solo stermina l'equipaggio intero di un grosso cargo spaziale...»
«Ma a chi la vuoi darla a bere?»
«Non funziona?»
«Eh no, bello!»
«Fammi pensare. Dovrà venirmi un’idea, prima o poi...Ho trovato. Un'enorme biblioteca, piena di libri con su scritti i nomi di tutte le persone vissute e che vivono su questa terra...»
«E con le loro date di nascita e di morte, magari...»
«Eh, magari! Perché stai ridendo? Ah, ho capito, già fatto. Proviamo allora con la storia di un bambino che parla con i morti,  un cimitero indiano che riporta in vita le salme, una ragazza frustrata con poteri di telecinesi, un'epidemia dove son tutti morti ma quelli della base artica non sanno niente. Una storia con un cadavere conservato in un frigo, una spedizione in Amazzonia che scopre l'albero della vita al centro dell'ecosistema, una società dove si bruciano i libri, un albergo abbandonato fra le montagne, uno che ha un incidente in auto e viene curato da una strana infermiera...Dei giovanotti che si avventurano alla ricerca di un cadavere?»
«Dai, non ti lasciare andare. Devi stare tranquillo e vedrai, ti verrà un'idea. Adesso sei stressato e non caverai niente da quella testolina. Ora è tardi. Devo improvvisare qualcosa da mettere sotto i denti e poi esco. Ho il corso di yoga, sai?»
«E invece io sono triste...»
«Per questa cosa dell'ispirazione? Non ci pensare e vedrai che andrà meglio. Adesso non ti offendere, ma devo proprio andare...»

Quest'oggi la mia amica è stata cinica, più del solito. 
La lascio quando è ormai concentrata per individuare in fondo alla dispensa qualcosa che sia pronto in meno di dieci minuti, e in soli cinque giri di cucchiaio. 
Sul pianerottolo, con la porta ormai chiusa alle mie spalle, sprofondo nei suoni confusi di un paio di televisori, inconsapevoli messaggeri della medesima bugia. Scelgo di non prendere l'ascensore e affronto gli otto piani  calpestando dei gradini intonsi. Sembra che non siano invecchiati affatto, e che abbiano conservato in loro un po' dell'odore di quegli anni, quando le palazzine si sostituivano ai prati con la medesima velocità con cui la notte si alternava al giorno. Mi faccio un'idea di quali pietanze riscaldate siano state preferite per quella sera  e mi stupisco che l'inquilino del terzo piano stia intonando una canzone sul sottofondo odoroso di un soffritto. 
Fuori la solita strada, che sembra non avere ancora digerito il traffico del pomeriggio.
Una teoria di passanti sfida la morte, con la testa china e il volto appena rischiarato  dal riflesso opaco del marciapiede.
Un paio di ciclisti affronta il verde del semaforo con una tensione sotto pelle che si avverte a distanza. Lui, pedalata quadra e spalle curve, punta dritto al controviale dalla parte opposta. Lei lo segue, rannicchiata nervosa nella sua tutina grigia.
Il mendicante all'angolo non se ne è ancora andato e la barbona sotto il palo della luce sembra avere trovato compagnia.
L'uomo d'affari arriva minaccioso, mantenendo il centro esatto del marciapiede. Brandisce la ventiquattrore come un ariete e la segretaria lo segue con il fiato che le raschia in gola. È stanca e cammina combattendo con i rigori di una gonna troppo stretta. Ha le ginocchia a X  che convergono ineleganti verso il centro, un tacco alla pericolosa ricerca di un tombino in cui infilarsi e negli occhi la voglia di tornare a casa, e di farlo il prima possibile.
La mamma fa fatica a tenere a bada il bambino capriccioso. Cinque anni, forse sei, e una cascata di decibel da sfogare nelle orecchie degli sventurati intorno. La donna si scusa con un sorriso stentato, appoggiato sulla faccia come se fosse posticcio. 
L'ambulante con le caldarroste potrebbe confezionare ancora qualche sacchetto, ma è stato sistematicamente ignorato da tutti i passanti. Vado oltre, percependo netto lo spartiacque fra delusione e rabbia. La ragazza alle mie spalle, vent'anni portati male e una formula di chimica organica a rimbalzare confusa nel cervello, si ferma davanti alle caldarroste, indugia e se ne va senza averle comprate. 
Passo l'edicola con una mummia al suo interno, la vetrina di una cartoleria senza più fiducia in se stessa e la polverosa collezione di un antiquario.
Finalmente raggiungo le scale della metro e mi catapulto nell'inferno dell'ora di punta.
Il treno, in un frastuono, ha già bucato l'aria satura della stazione e mi accoglie dentro un'atmosfera di caldo irreale e puzza di freni.
Nel vagone un reggimento amorfo di esseri umani è attirato dallo schermo del cellulare. Ondeggia, sincronizzato ad ogni movimento, e talvolta sente il bisogno di un appiglio. Una selva di mani si proietta ovunque, alla ricerca del sostegno giusto. L'uomo con gli occhiali di tartaruga sbaglia mira e spettina i capelli color neve della vecchina con il cane in braccio. Lo scambio di scuse e convenevoli è condito da una nauseante amalgama di ipocrisia e buone maniere.
La ragazza dall'altra parte della carrozza  è metaforicamente nuda. 
È priva del telefono o di un compagno per conversare. Il finestrino sporco non riflette l'immagine del suo bel viso.
Ci guardiamo, attraverso i pochi metri che ci dividono e le mille storie di vita racchiuse nelle cerniere lampo. La immagino sotto un ombrellone di paglia, messo a dimora nella sabbia calda e bianca di una spiaggia tropicale, con la brezza leggera che anticipa il tramonto, il riflesso del sole sul bagnasciuga e una spianata di nuvole rosse sull’orizzonte. Per un attimo, percepisco un soffio che attraversa i suoi capelli neri. Accenna un sorriso, timido, disegnato con tratto leggero dietro al ricordo evaporato di un lucidalabbra. Sembriamo fatti l’uno per l’altra, ma non troviamo il coraggio di parlarci.
Quando arriva la mia fermata, troppo presto e all'improvviso, scendo con  due solide certezze.
La prima è che non vedrò mai più la ragazza della metro.
La seconda è che è arrivata l'ispirazione per un libro.


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