«Sì, evviva, potrei
scrivere un libro sugli zombie! Saccheggerei migliaia di pagine di letteratura
e cinema, tanto cinema. Pensa che il primo film sugli zombie risale addirittura
al millenovecento... Aspetta che vado su Google e...»
«Ma risparmiati i
polpastrelli! Saccheggeresti soltanto del materiale che altri hanno già
saccheggiato. Non faresti che riproporre la solita minestra riscaldata.»
«Sicura?»
«Perbacco, certo che sono
sicura!»
«Quindi gli zombie, no. »
«Che marciscano in pace.»
«E un poliziesco con
l'ispettore, come lo vedi?»
«Intendi il solito
ispettore che sta sulle palle al distretto intero, fuma senza ritegno, si
attacca alla bottiglia come fosse la tetta di sua madre, ha moglie e figli che
si rifiutano di vederlo e quando il caso si arena decide di fare giustizia da
sé?»
«Un ispettore tipo
quello, ma senza la tetta della madre. Potrebbe farmi scadere la cosa
nell'incesto.»
«Lascia stare...»
«E perché?»
«Perché è un cliché, che
piace per l'amor di Dio, ma è un cliché...»
«Patologo, allora! Un
patologo forense che risolve i casi. Io peraltro conosco un patologo. Non dico
che mi porterebbe in luna di miele all'obitorio, ma qualche dritta sulla
professione sua e qualche particolare raccapricciante me lo darebbe. Magari lo
invito a cena...»
«Ma ce ne sono a
migliaia!»
«Di patologi che
risolvono i casi?»
«E chi se no?»
«Ma io gli incollo un
vizio...»
«Dopo i libri di Bukowski
non esiste più vizio che regga.»
«Un difetto di nascita,
allora. Lo faccio dislessico!»
«Esiste già...»
«Un patologo dislessico?»
«Non proprio. È un
ispettore, ma che differenza fa!»
«Posso dire una
parolaccia?»
«No!»
«Merda!»
«L'hai detta!»
«Dopo l'ispettore
dislessico ne avevo diritto. E se invece virassi sul serial killer?»
«Uhm, un po' sfruttato ma
sempre interessante...»
«Lo faccio speciale...Ah,
ecco, senti che idea. E' un serial killer che non sa di esserlo. Voglio dire,
dissocia. Sostituisce la sua persona immaginandosi un energumeno che attraversa
la provincia desolata con un vecchio furgone...»
«Già fatto...»
«Davvero?»
«Oh yes!»
«Un serial killer senza
casa. Uno che si apparta nelle dimore altrui e...»
«Arrivi in ritardo, mio
caro!»
«Che gira disarmato e che
quando deve uccidere la sua vittima, improvvisa.»
«Già fatto.»
«E chi sarebbe sto genio?»
«Te lo direi ma non
posso. E’ lo stesso autore di questo racconto e finirebbe con l’essere
squalificato»
«Leggerò qualcosa di
suo.»
«Dovresti, è bravo...»
«Un serial killer che
uccide le vergini!»
«Oddio!»
«Gira mascherato!»
«Bleah!»
«È un religioso
invasato.»
«Ma dai! Ti
arrendi?»
«No, maledizione!
Scriverò una storia con femmine fatali, malavitosi, vampiri e demoni che si
rincorrono allegramente in mezzo ai grattacieli di una metropoli!»
«Dimenticavi i lupi
mannari...»
«Non funzionerebbe,
vero?»
«Magari sì, se fossimo
nel 1948, un po' prima dell'avvento della televisione.»
«Macchine infernali,
epidemie letali, colpi di stato interplanetari...Un organismo xenomorfo
parassitoide extraterreste che da solo stermina l'equipaggio intero di un
grosso cargo spaziale...»
«Ma a chi la vuoi darla a
bere?»
«Non funziona?»
«Eh no, bello!»
«Fammi pensare. Dovrà
venirmi un’idea, prima o poi...Ho trovato. Un'enorme biblioteca, piena di libri
con su scritti i nomi di tutte le persone vissute e che vivono su questa terra...»
«E con le loro date di
nascita e di morte, magari...»
«Eh, magari! Perché stai
ridendo? Ah, ho capito, già fatto. Proviamo allora con la storia di un bambino
che parla con i morti, un cimitero indiano che riporta in vita le salme,
una ragazza frustrata con poteri di telecinesi, un'epidemia dove son tutti
morti ma quelli della base artica non sanno niente. Una storia con un cadavere
conservato in un frigo, una spedizione in Amazzonia che scopre l'albero della
vita al centro dell'ecosistema, una società dove si bruciano i libri, un
albergo abbandonato fra le montagne, uno che ha un incidente in auto e viene
curato da una strana infermiera...Dei giovanotti che si avventurano alla
ricerca di un cadavere?»
«Dai, non ti lasciare
andare. Devi stare tranquillo e vedrai, ti verrà un'idea. Adesso sei stressato
e non caverai niente da quella testolina. Ora è tardi. Devo improvvisare
qualcosa da mettere sotto i denti e poi esco. Ho il corso di yoga, sai?»
«E invece io sono
triste...»
«Per questa cosa
dell'ispirazione? Non ci pensare e vedrai che andrà meglio. Adesso non ti
offendere, ma devo proprio andare...»
Quest'oggi la mia amica è stata cinica, più del solito.
La lascio quando è ormai
concentrata per individuare in fondo alla dispensa qualcosa che sia pronto in
meno di dieci minuti, e in soli cinque giri di cucchiaio.
Sul pianerottolo, con la
porta ormai chiusa alle mie spalle, sprofondo nei suoni confusi di un paio di
televisori, inconsapevoli messaggeri della medesima bugia. Scelgo di non
prendere l'ascensore e affronto gli otto piani calpestando dei gradini
intonsi. Sembra che non siano invecchiati affatto, e che abbiano conservato in
loro un po' dell'odore di quegli anni, quando le palazzine si sostituivano ai
prati con la medesima velocità con cui la notte si alternava al giorno. Mi
faccio un'idea di quali pietanze riscaldate siano state preferite per quella
sera e mi stupisco che l'inquilino del terzo piano stia intonando una
canzone sul sottofondo odoroso di un soffritto.
Fuori la solita strada, che
sembra non avere ancora digerito il traffico del pomeriggio.
Una teoria di passanti
sfida la morte, con la testa china e il volto appena rischiarato dal
riflesso opaco del marciapiede.
Un paio di ciclisti
affronta il verde del semaforo con una tensione sotto pelle che si avverte a
distanza. Lui, pedalata quadra e spalle curve, punta dritto al controviale
dalla parte opposta. Lei lo segue, rannicchiata nervosa nella sua tutina
grigia.
Il mendicante all'angolo
non se ne è ancora andato e la barbona sotto il palo della luce sembra avere
trovato compagnia.
L'uomo d'affari arriva
minaccioso, mantenendo il centro esatto del marciapiede. Brandisce la
ventiquattrore come un ariete e la segretaria lo segue con il fiato che le
raschia in gola. È stanca e cammina combattendo con i rigori di una gonna
troppo stretta. Ha le ginocchia a X che
convergono ineleganti verso il centro, un tacco alla pericolosa ricerca di un
tombino in cui infilarsi e negli occhi la voglia di tornare a casa, e di farlo
il prima possibile.
La mamma fa fatica a
tenere a bada il bambino capriccioso. Cinque anni, forse sei, e una cascata di
decibel da sfogare nelle orecchie degli sventurati intorno. La donna si scusa
con un sorriso stentato, appoggiato sulla faccia come se fosse posticcio.
L'ambulante con le
caldarroste potrebbe confezionare ancora qualche sacchetto, ma è stato
sistematicamente ignorato da tutti i passanti. Vado oltre, percependo netto lo
spartiacque fra delusione e rabbia. La ragazza alle mie spalle, vent'anni
portati male e una formula di chimica organica a rimbalzare confusa nel
cervello, si ferma davanti alle caldarroste, indugia e se ne va senza averle
comprate.
Passo l'edicola con una
mummia al suo interno, la vetrina di una cartoleria senza più fiducia in se
stessa e la polverosa collezione di un antiquario.
Finalmente raggiungo le
scale della metro e mi catapulto nell'inferno dell'ora di punta.
Il treno, in un
frastuono, ha già bucato l'aria satura della stazione e mi accoglie dentro
un'atmosfera di caldo irreale e puzza di freni.
Nel vagone un reggimento
amorfo di esseri umani è attirato dallo schermo del cellulare. Ondeggia,
sincronizzato ad ogni movimento, e talvolta sente il bisogno di un appiglio. Una
selva di mani si proietta ovunque, alla ricerca del sostegno giusto.
L'uomo con gli occhiali di tartaruga sbaglia mira e spettina i capelli color
neve della vecchina con il cane in braccio. Lo scambio di scuse e convenevoli è
condito da una nauseante amalgama di ipocrisia e buone maniere.
La ragazza dall'altra
parte della carrozza è metaforicamente nuda.
È priva del telefono o
di un compagno per conversare. Il finestrino sporco non riflette l'immagine del
suo bel viso.
Ci guardiamo, attraverso
i pochi metri che ci dividono e le mille storie di vita racchiuse nelle cerniere
lampo. La immagino sotto un ombrellone di paglia, messo a dimora nella sabbia
calda e bianca di una spiaggia tropicale, con la brezza leggera che anticipa il
tramonto, il riflesso del sole sul bagnasciuga e una spianata di nuvole rosse
sull’orizzonte. Per un attimo, percepisco un soffio che attraversa i suoi
capelli neri. Accenna un sorriso, timido, disegnato con tratto leggero dietro
al ricordo evaporato di un lucidalabbra. Sembriamo
fatti l’uno per l’altra, ma non troviamo il coraggio di parlarci.
Quando arriva la mia
fermata, troppo presto e all'improvviso, scendo con due solide certezze.
La prima è che non vedrò
mai più la ragazza della metro.
La seconda è che è arrivata l'ispirazione per un libro.
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